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@Remanzini_Rinaldo
La mia nonna paterna con cui ho convissuto dal 1957 al 1966 guardava la TV seduta accanto al telefono che usava intensamente per commentare ciò che vedeva (chiamava figlie e nuore, ma più spesso l'allora Servizio Opinioni); una volta, dopo le estrazioni dell'Epifania, invece di telefonare si rivolse a me: «Ma nui nu vvincìmu mai?» «Nonna, ma tu neanche compri il biglietto!» «Già, e allora cce ffurtuna ete?».
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Quand'ero piccolo fra mamma, zie e nonne sono stato forzato a imparare a parlare solo un'italiano impeccabile; c'era una bisnonna e quattro o cinque prozii/e che ci tenevano a parlare in dialetto (compresi un uomo di mondo e una maestra elementare) manco fossero alla corte del cosiddetto Re Galantuomo, ma a noi bambini era severamente vietato: dovevamo comprendere sì, ma rispondere solo in italiano.
Il dialetto poi lo imparai al Ginnasio avendo il grande Mario D'Elia (un glottologo dell'Università, allora si poteva stare sia lì che al Liceo!) che avrebbe dovuto insegnarci Italiano, Latino, Greco, Storia, Geografia e che invece c'intratteneva su Italiano, Latino, Greco e Dialettologia (qualche anno prima di Gerhard Rohlfs) con ampi richiami alle principali lingue romanze e germaniche (non slave, chi sa perché).
Quarant'anni dopo una collega di Lettere mi spiegò la mia fortuna d'avere avuto D'Elia al Ginnasio, più o meno come quelli che ebbero Citati all'Istituto Professionale.
Poi nel 1957 mi sono trasferito a Roma prendendo un appartamento con due cugini provenienti uno da Parma e l'altro da Como, una governante-tuttofare e la nonna a farci da chioccia: come disse uno zio di passaggio «Una specie di anarchia controllata». A me e ai cugini (18, 19 e 21 anni) la grande città aprì nuovi orizzonti; la nonna invece ebbe una reazione da sradicamento: lei che era stata così severa con noi bambini, si mise a parlare prevalentemente in dialetto.